Marco Bianchini
Ricostruzione di un edificio in opus craticium
di età arcaica dell'ager Fidenatis
Il presente lavoro è parte di un contributo a firma di F. di Gennaro, A. Amoroso, M. Bianchini, F. Fraioli, M. Merlo, Strutture semipogee in un settore dell' ager Fidenatis, che è stato presentato nel corso del seminario “Suburbium II” tenutosi il 16 novembre 2004 presso l’Ecole Française de Rome e che e stato finalmente pubblicato nel corso del 2010 (cfr. A. Amoroso, M. Bianchini, F. Di Gennaro, F. Fraioli, M. Merlo, “Strutture semipogee nell'ager Fidenatis”, in Suburbium,2. Il suburbio di Roma dalla fine dell'età monarchica alla nascita del sistema delle ville (V - II secolo a.c.), Roma 2009, pp. 347-367). In questo intervento sono state illustrate otto cavità artificiali, distribuite su una superficie di 4200 mq. (fig. 1), le quali sono state portate in luce in occasione della campagna di scavo della Tenuta Radicicoli condotta dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, sotto la direzione di Francesco di Gennaro. La maggior parte di queste cavità presentano lungo il perimetro resti di fondazioni in blocchi di tufo (fig. 2). All'interno sono stati scavati gli strati di crollo degli elevati. Il materiale rinvenuto attesta che questo piccolo agglomerato rurale, con destinazioni d'uso forse diversificate (abitazioni, magazzini, vasche), è stato obliterato nel corso del V secolo.
Ho deciso di presentare in questa sede, in formato html, la parte dell'articolo a mia firma, con i rilievi e le ricostruzioni che ho eseguito all'epoca, dove si descrive lo scavo dell'edificio in migliore stato di conservazione (sito 69), di cui si propone un'ipotesi ricostruttiva. Rispetto all'articolo cartaceo questa pagina presenta un maggior numero di immagini, tutte a colori e liberamente scaricabili.
(Fabiola Fraioli si è occupata in particolare dell'inquadramento topografico e della descrizione delle otto cavità artificiali; a Manuela Merlo si deve lo studio dei materiali; Angelo Amoroso si è dedicato ai confronti e al tema della destinazione d'uso delle varie strutture; Francesco di Gennaro ha inquadrato le vicende del piccolo insediamento nell'ambito degli eventi bellici e delle dinamiche connesse alla proprietà della terra in età arcaica ed alto-repubblicana).
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Sono stati messi in luce gli avanzi della fondazione di un edificio quadrangolare, di circa m. 5,50 x 4, costituita da blocchi rettangolari in tufo di Fidene, di diverse dimensioni e disposti su file orizzontali discontinue, con scaglie negli interstizi e legante di argilla (figg. 3, 4, 5). Si erano conservati l’intero lato est della struttura e alcuni tratti degli altri lati. L’altezza massima era di circa un metro e dieci, pari a tre o quattro filari. I blocchi di tufo rivestivano i quattro lati di una cavità tagliata nel suolo argilloso. I filari inferiori poggiavano sull’interfaccia del sottostante più duro banco tufaceo. La cavità in origine venne scavata ulteriormente in profondità — nell’intera area risultante in mezzo alla struttura in blocchi — fino a 70 cm. al di sotto del piede della fondazione; un gradone alto circa trenta centimetri fu risparmiato sul fondo al centro del lato nord della fossa.
La cavità situata in mezzo al perimetro murario, alta pertanto complessivamente circa un metro e ottanta, al momento dello scavo risultava riempita fino al bordo superiore — corrispondente al filare più alto conservato del muro in blocchi — da strati contenenti numerosi materiali (fig. 6), particolarmente ai livelli inferiori, i quali sono stati scavati con metodo stratigrafico, rilevati e ricostruiti in tre dimensioni. L’analisi di questi strati ci ha consentito di comprendere la dinamica del crollo e di formulare alcune ipotesi ricostruttive sull’alzato dell’edificio.
La parte più profonda della fossa, fino al piede della fondazione, era riempita da numerosi blocchi rettangolari in tufo di Fidene, analoghi a quelli che si erano conservati lungo i bordi, insieme a una grande quantità di scaglie più piccole, alcune in tufo di Fidene, la maggior parte ricavate nel più tenero tufo giallo locale, oltre a una trentina di frammenti di tegole (US 642, 575, 552) (fig. 7). I blocchi più grandi prevalevano negli strati più profondi, mentre le schegge di tufo e le tegole aumentavano percentualmente negli strati superiori. Questa disposizione ci fa ritenere che il crollo sia avvenuto in un unico momento — caso che è più frequente nelle strutture in materiali deperibili — coinvolgendo parte della fondazione e tutto l’elevato. Tutti gli strati presentavano inoltre un’accentuata pendenza da N0 verso SE, essendo lungo i lati N e O che si concentrava la maggiore quantità di materiali, suggerendo che l’edificio sia caduto verso SE e che pertanto la cavità centrale sia stata riempita prevalentemente dalle macerie dei muri N e O, mentre i muri E e S si sarebbero abbattuti sull’area esterna. La sequenza stratigrafica fa registrare interventi di manomissione posti in essere subito dopo la rovina dell’edificio. A questa fase risale una fossa con riempimento argilloso rinvenuta lungo il lato meridionale della cavità, facilmente identificabile con la trincea di spoliazione di questo tratto — scomparso — della fondazione. Parte dei blocchi del muro opposto risultano invece essere slittati o caduti sui sottostanti strati di crollo, forse in conseguenza della asportazione dei pezzi adiacenti (US 632, 397b). (fig. 8). All’incirca nello stesso momento dal bordo ovest della fossa venne effettuata una gettata di grossi blocchi in tufo giallo locale, portati assai probabilmente da un altro luogo, la quale era andata a colmare un vuoto formatosi al centro di questo braccio della fondazione in conseguenza del crollo (US 108, 517). Le tegole sane già facenti parte della copertura potrebbero essere state asportate in gran parte in questa fase in quanto lo scavo ci ha restituito solo frammenti.
Seguì un periodo di abbandono testimoniato da un deposito argilloso al livello superiore, il quale riempì anche la trincea di spoliazione della fondazione meridionale (US 397) (fig. 9). Sopra questo è stato individuato uno strato con una notevole concentrazione di frammenti di tegole e scaglie di tufo giallo, simili a quelli rinvenuti ai livelli sottostanti (US 124, 125, 126) (fig. 10). Potrebbe trattarsi di una gettata di materiali di scarto portati da altrove, ma neppure è da escludere l’ipotesi che pezzi della copertura e delle parti più alte dei muri a seguito del crollo siano rimasti, per un tempo relativamente lungo, sostenuti a una certa altezza dal suolo dall’intreccio dei pali lignei che costituivano lo scheletro dell’edificio e che cadendo si erano appoggiati l’uno sull’altro e sui resti della fondazione; marciti gli elementi lignei, il tutto sarebbe finalmente collassato a terra coprendo gli strati di abbandono già in formazione.
Data la grande quantità di scaglie di tufo di piccole dimensioni rinvenute negli strati di crollo, e considerata la totale assenza di malta, riteniamo che l’elevato dell’edificio, poggiante sulla fondazione in blocchi rettangolari, avesse una muratura in opus craticium costituita da scapoli di tufo di forme e dimensioni assai variabili, legati da argilla e sostenuti da una intelaiatura di travi lignee. Il tetto — considerati i non pochi frammenti rinvenuti - era assai probabilmente di tegole. Si tratta di un modo di costruire che, come già documentato da altri scavi archeologici, sembra affermarsi in Italia dal VI secolo e che in epoca successiva sopravvivrà a latere delle più solide structurae caementiciae, particolarmente in ambiente rustico ma anche nelle parti secondarie delle abitazioni cittadine- piani superiori, tramezzi interni — come ampiamente testimoniato a Pompei ed Ercolano. Questo genere di strutture avrà inoltre ancora larga diffusione nel medioevo, sopravvivendo fino ai giorni nostri in molte parti del mondo, dalla Turchia ai villaggi dell’Europa nord-occidentale. Le accomuna sul piano costruttivo l’utilizzo di una intelaiatura portante in travi di legno e dell’argilla come legante, che può essere mista a pietrame — come nel nostro caso — oppure a materiali più leggeri come la paglia. Le soluzioni costruttive adottate sono connaturate a questo tipo di tecnica restando invariate nel tempo e presentando numerose similitudini anche tra ambiti geografici molto distanti. Pertanto è proprio in base al confronto con le case a graticcio medievali e moderne, numerose e ben conservate particolarmente in Francia e Inghilterra (figg. 11, 12), che è possibile formulare ipotesi ricostruttive attendibili dei “prototipi” di età antica (nota 1).
Partendo dalla ricostruzione tridimensionali dei vari strati di riempimento della cavità, ho potuto realizzare un modello ricostruttivo dell’alzato dove i frammenti di tufo ritrovati negli strati di crollo — tenendo conto delle loro dimensioni, quantità e orientamento — sono stati ipoteticamente ricollocati nella loro posizione originaria (fig. 13). E’ importante annotare, innanzitutto, che le facce superiori dei filari più alti, tra quelli conservati, si trovano alla stessa quota in ogni parte dell’edificio, a differenza di quelli sottostanti che sono spesso sfalsati. Questo dato ci fa ritenere che tale livello corrisponda a un piano di posa, quasi sicuramente quello delle travi correnti su cui dovevano essere impostati i pali verticali, e che pertanto vada identificato con lo spiccato della struttura in elevato (nota 2).I blocchi più grandi, provenienti dagli strati, riescono a riempire tutti i vuoti risultanti al centro della parete ovest e al centro della parete nord, fino alla quota dei filari più alti conservati. Numerosi altri frammenti di tufo di Fidene, di dimensioni anche non piccole, e inequivocabilmente pertinenti per la loro posizione agli stessi lati N e O dell’edificio, dovevano pertanto collocarsi più in alto all’interno dell’ossatura lignea dell’elevato. Probabilmente essi erano situati nella parte inferiore del muro, formando una sorta di zoccolo pesante che migliorava la stabilità dell’edificio, mentre la parte superiore del graticcio doveva essere riempita dalle scaglie più piccole e più leggere in tufo giallo locale, che lo scavo ha restituito in quantità ancora maggiori (nota 3). (fig. 14). Il tetto, considerati i numerosi frammenti trovati negli strati di crollo, come si è detto doveva essere rivestito di tegole.
Il filare più alto della fondazione, i cui blocchi avevano uno spessore mediamente di cinquanta centimetri, si prestava a ospitare, dalla parte interna, anche i travi correnti che sostenevano il pavimento (nota 4). Al di sotto risultava un vano alto circa un metro e ottanta, evidentemente con funzione di cantina, al quale si accedeva forse per mezzo di una botola e di una scaletta poggiante sul gradone ricavato sul fondo della cavità (nota 5). (fig. 15). Segnaliamo infine che i soli blocchi inferiori della fondazione situati su tre lati nell’estremo settore orientale dell’edificio presentano una sporgenza alla stessa quota che fa pensare a una mensola, adatta a sostenere uno scaffale ligneo su un lato della cantina, situato novanta centimetri sopra il pavimento e profondo almeno un metro e venti.
Marco Bianchini
Tutti i rilievi e le ricostruzioni del sito 69 sono di Marco Bianchini.
I rilievi delle altre cavità artificiali sono di Marco Bianchini e di Tommaso Leti Messina.
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Note
1. In mezzo alla vasta bibliografia in tema di case a graticcio postantiche, voglio limitarmi a segnalare l’interessante articolo di Andrea R. Staffa, Forme di abitato altomedievale in Abruzzo. Un approccio etnoarcheologico, on line: http://bibar.unisi.it/testi/TESTISAP/04/04-05.pdf
Per quanto riguarda l’Italia antica gli esempi più noti e meglio conservati si trovano a Pompei e soprattutto a Ercolano. Numerosi scavi effettuati negli ultimi decenni, in particolare nel Lazio, hanno portato in luce resti di strutture simili alla nostra — e nella maggior parte dei casi datate tra il VII e il V secolo a.C. — con zoccoli in blocchi di pietra talvolta associati a strati di crollo contenenti frammenti di tegole e/o e blocchetti di tufo provenienti dall’elevato. Tra i vari ritrovamenti di questo genere, quello che sicuramente presenta maggiori analogie con l’edificio in esame è una struttura semi-ipogea individuata a Casale Pian Roseto, presso Veio, in particolare per le dimensioni e la disposizione dei blocchi dello zoccolo che rivestono il perimetro di una cavità rettangolare, di m. 8,20 x 3,60, scavata nel banco e di profondità quasi uguale alla nostra (circa m. 1.70). Anche in questo caso gli strati di crollo presenti nella cavità hanno restituito frammenti di tegole e di blocchi di tufo (Cfr. L. Murray Threipland , M. Torelli, A Semi-subterranean Etruscan Building in the Casale Pian Roseto (Veii) Area, BSR 38, 1970, pp. 62-121).
2. Nei resti delle strutture in opus craticium più pesanti — muri perimetrali di maggior spessore con riempimento in pietrame e destinati a sostenere un tetto di tegole — non si rinvengono ovviamente buchi dei pali verticali in quanto questi dovevano necessariamente poggiare sopra una robusta trave corrente che svolgeva la duplice funzione di incatenare alla base l’intero telaio ligneo dell’edificio e di ripartirne il carico in modo uniforme sulla fondazione in blocchi di pietra. La soluzione di infiggere i pali verticali direttamente nel terreno veniva adottata pertanto in costruzioni di minor impegno strutturale, come nel caso delle capanne con tetti di paglia e pareti in argilla o dei sottili tramezzi interni alle abitazioni di Ercolano.
Per quanto riguarda la conformazione del telaio ligneo, nella nostra ricostruzione abbiamo ipotizzato anche la presenza di diverse traverse sbieche (c.d. puntelli), elementi molto comuni negli edifici medievali e moderni i quali svolgono una funzione di rinforzo essenziale all’interno dei muri portanti. Essi sono assenti nella quasi totalità dei muri in craticium pompeiani ed ercolanensi conservatisi, i quali sono tuttavia pertinenti a parti secondarie degli edifici; in altri casi dovevano invece essere frequentemente utilizzati, come attestano ad esempio le impronte di traverse diagonali rimaste su un muro della villa di Diomede a Pompei.
3. Ancora oggi in Francia si vedono edifici “en torchis” dove il riempimento della parte inferiore dell’elevato, compreso nell’ossatura lignea, è stato realizzato con materiali più pesanti (frequentemente con mattoni), mentre la parte superiore del muro è in argilla intonacata (fig.12).
4. In molte case a graticcio medievali e moderne il pavimento è impostato su uno zoccolo in pietra alla stessa quota del trave corrente che sorregge i pali verticali dell’alzato. Lo zoccolo in pietra non è solo una fondazione, ma ha anche la funzione di isolare le strutture lignee, sia del pavimento che dell’alzato, dall’umidità del suolo sollevandole da terra. Normalmente sotto al pavimento restava un’intercapedine che favoriva la circolazione dell’aria. Queste intercapedini sono documentate già molto chiaramente nei resti di varie costruzioni di epoca romana in Gallia e in Britannia (come ad es. nel caso degli horrea.della guarnigione di Borcovicus nel Vallo di Adriano). Nel nostro caso questa funzione d’isolamento dall’umidità viene assolta dal ripostiglio sottostante
5. Similmente a quanto ricostruito da Luigi Malnati per l’edificio rustico del V secolo a.C. rinvenuto in Emilia nel territorio di Modena, in località Case Randelli (Malnati, 1989, pp. 262-271). Da segnalare è anche la scala, realizzata in questo caso in muratura, che scendeva al vano semi-ipogeo, profondo circa come il nostro, dell’edificio di Casale Pian Roseto (Murray Threipland, Torelli, op. cit. a nota 1).
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